Giuseppe De Santis – Il Cinema come Rivalsa Sociale

Gabriel Carlevale

Ottobre 23, 2018

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- RETROSPETTIVE D'AUTORE: IL NEOREALISMO ITALIANO -

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De Santis ha sempre desiderato parlare a un pubblico il più vasto e popolare possibile; amava comunicare i sentimenti dei suoi personaggi nella maniera più chiara, al di là delle parole. In questo era esemplare il suo modo di inquadrare, di muovere la macchina, di cui era maestro. Non era formalismo ma ricerca accurata per esprimere il rapporto tra il suo personaggio e la sua “verità”. Era una verità “nazional-popolare” di ispirazione gramsciana, come è stato detto e come sosteneva lo stesso De Santis, ma era anche la verità che quell’artista voleva e riusciva a rappresentare.

(Francesco Rosi)

 

Giuseppe De Santis ha circa trent’anni quando inizia la lavorazione del suo primo opera cinematografica, Caccia Tragica (1947). Eppure, non è questo il motivo per cui il suo nome inizia ad acquistare fama nel cinema italiano: infatti, poco più che ventenne, è la firma più importante (e autorevole) della rivista Cinema, e il suo nome comincia a circolare tra gli addetti ai lavori; Luchino Visconti lo vuole con sé sul set del film Ossessione e, dopo di lui, collabora con Roberto Rossellini. È inoltre tra gli autori del documentario bellico Giorni di Gloria e primo collaboratore per Aldo Vergano, nella produzione del film Il sole sorge ancora. Grazie all’esperienza acquisita con la gavetta, De Santis può realizzare il suo primo film, un perfetto intreccio tra noir e western, ambientato nelle campagne romagnole. Caccia Tragica diventa l’occasione per rendere il fatto storico cinematografico: proprio per questo, De Santis si lascia influenzare dalle sue grandi passioni; il cinema sovietico certo, ma in particolare i grandi classici del cinema statunitense, realizzando un ritratto della vita contadina italiana, adattata ai i canoni della messa in scena hollywoodiana.

La storia della cooperativa Bandini, derubata da una banda di criminali nazi-fascisti (a loro volta ingaggiati dagli stessi fattori proprietari delle terre), è la perfetta metafora della lotta tra partigiani e fascisti che caratterizzò la liberazione italiana. Il regista di Fondi, realizza un affresco popolare eppure privato, mettendo in scena un film che parla alla pancia del paese, ma che nel mentre si occupa delle singole vite dei personaggi: Michele e Giovanna, freschi sposini che si vedono dividere; Alberto, che da uomo comune del posto si trasforma in bandito (conservando però un’anima pura che lo porterà a subire cambiamenti continui); e più di tutti Daniela, personaggio fatale della vicenda, che dietro la maschera da spietata belva fascista, nasconde una fragilità candida, che rimane bloccata tra l’essere e non essere shakespeariano.

È con il film successivo però Giuseppe De Santis raggiungerà il punto massimo della sua carriera: Riso Amaro (1949) è il suo maggior successo, e uno dei film più rappresentativi del Neorealismo italiano, tant’è che il suo eco supererà i confini nazionali, arrivando con giubilo nelle sale cinematografiche d’oltre oceano. De Santis realizza il suo secondo film modellando lo stile neorealista su uno dei generi più in voga al tempo, il fotoromanzo. All’interno del racconto, ritroviamo tutti gli archetipi del suo modus operandi, in particolar modo è la traccia erotica ad emergere, grazie anche alle forme della protagonista, Silvana Mangano, esempio di statuaria bellezza mediterranea.

Nella sua idea cinematografica, il regista tende a differenziare gli strati di lettura, in modo da poter creare due traiettorie distinte all’interno del film: da una parte ha la possibilità di svolgere il suo discorso da autore cinematografico, mentre in secondo luogo realizza un cinema fortemente legato alle masse popolari. Quest’ultima, nella sua idea, assume il doppio ruolo di protagonista e spettatore dei suoi film. In questo senso, Riso Amaro, può essere inteso non solo come un film rivolto alle masse, ma un’opera sulla cultura di massa, uno spunto di riflessione attorno ai problemi culturali dell’Italia post seconda guerra mondiale.

Con il successivo Non c’è pace tra gli Ulivi (1950), De Santis torna sui luoghi della sua Ciociaria, mettendo in scena la rivincita sociale dei pastori e l’esaltazione della lotta di classe. Nel terzo capitolo della sua trilogia, il regista ha finalmente la possibilità di narrare e (mai come in questo caso) testimoniare, i conflitti accumulati nella sua città natale, Fondi, un piccolo paese situato tra il mare e le colline ciociare. La storia di Francesco, pastore derubato che lotta per la sopravvivenza sua e della famiglia (senza dimenticare la rincorsa alla donna che ama), assume per De Santis un parallelismo con il genere western; ma se nelle grandi storie americane l’obiettivo era la riconquista delle terre, per il regista la lotta verte alla libertà, alla riconquista della propria vita. Fondamentale, per questo, è la forza della comunità: Francesco subisce le sue sciagure quando il gruppo dei pastori non si dimostra solidale con lui; inversamente, quando questi capiranno l’importanza della coesione sociale, decreteranno la vittoria del pastore.

Il tessuto morale dell’intera vicenda è legato all’assunzione necessaria di una coscienza di classe: finché gli esseri umani agiranno individualmente, cercando una giustizia personale, l’uomo non potrà che essere condannato. Solo quando la presa di coscienza sarà collettiva, l’uno sarà disposto al sacrificio per l’altro, allora la vittoria sarà possibile. Non a caso, nell’epilogo della storia, simbolicamente De Santis non chiude su Francesco e Lucia ormai felici, ma sul gruppo dei pastori, che unendosi, ha decretato la vittoria del bene sul male.

Un cinema costruito sulle classi popolari, sulle lotte e le sofferenze dei più deboli, sulla bestialità della vita e l’importanza dell’aiuto fraterno. Eppure non c’è solo questo: nel cinema del maestro fondano, acquista importanza (per la prima volta) la figura femminile; non più oggetto, non più mater dolorosa, ma vera e propria protagonista della vita alla pari degli uomini e non più subordinata al suo volere. Cinema sociale quindi, ma al contempo antropologico: all’interno della narrazione, De Santis aggiunge la ricerca sul personaggio, esplora il suo io interiore e lo mette in mostra; l’essere umano entra in contatto con il mondo circostante, ne trae benefici e ne subisce i dolori.

Con i lavori successivi, da Un marito per Anna Zaccheo a Giorni d’amore, passando per il capolavoro Roma Ore 11 (che Jean-Luc Godard dichiarerà: “l’unico film italiano, insieme a La prise de pouvoir par Louis XIV di Rossellini, tra quelli che hanno segnato delle rotture o hanno proposto delle pratiche nei rapporti tra il cinema e la storia del ventesimo secolo”), De Santis continuerà a scandagliare la vita italiana del tempo, mantenendo sempre fede al suo pensiero politico/sociale nonché la sua pratica registica. Saranno questi però (anche), alcuni dei motivi per cui la sua carriera volgerà al termine nel giro di pochi anni: le idee politiche di stampo comunista e il rifiuto di un cinema lontano dagli stilemi prediletti del regista di Fondi, lo porteranno a concludere la sua carriera nei primi anni ’70: è nel 1972 che vede la luce Un apprezzato professionista di sicuro avvenire, ultimo lungometraggio di Giuseppe De Santis.

Anche in questo caso (come nei precedenti film), De Santis deve realizzare uno sforzo incredibile per far sì che il suo progetto veda la luce (grazie alla collaborazione con l’amico Giorgio Salvioni). Nel suo ultimo lungometraggio, De Santis recupera il rapporto crimine-inchiesta, uno dei leitmotiv dei primi film. Gli anni del silenzio vedono il regista continuamente al lavoro su nuovi soggetti, nella speranza che prima o poi qualcuno di essi veda la luce. Nel 1995, riceve il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia, in compagnia di alcuni dei giganti del cinema mondiale, tra cui Alain Resnais, Woody Allen e Martin Scorsese. Giuseppe De Santis è morto nel 1997, ma la sua opera continua a vivere ancora lucidamente negli occhi e nella mente di spettatori e appassionati, grazie alla rivoluzione sia tecnico-espressiva che contenutistica del suo cinema.

La rivalutazione che la sua filmografia ha ricevuto nell’ultimo decennio, ripaga in qualche modo gli sforzi di un autore unico e ribelle, e in qualche modo non ci fa rimpiangere quello che sarebbe stato il proseguo della sua carriera, ma riporta in auge quella che è stata.

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