Nelle torbide acque dell’esistenza, districandosi fra ordine e caos, può capitare di scorgere con chiarezza, in un istante, il proprio posto nel mondo. Quella consapevolezza, cercata con più o meno affanno, completa l’essenza delle anime erranti che vagano senza meta ai confini del reale. Ace e Itachi, personaggi rispettivamente di One Piece e Naruto, incarnano efficacemente la figura del viandante nietzschiano, danzando sopra l’oblio del nichilismo.
Un senso di irriducibile sofferenza accompagna la vita di entrambi, anche se il tormento assume tratti la cui specificità ne modifica il significato. Ambedue si trascinano dietro un peso che ha a che fare con la genetica, perché la maledizione di essere il figlio perduto di Gol D. Roger non è così diversa dalla maledizione di essere un Uchiha. Il tratto divergente del quale si veste il tormento è semmai riconoscibile sviscerando il concetto di colpa.
Quella che affronterà Portuguese D. Ace è una colpa dal richiamo fortemente biblico, figlia del peccato originale di Adamo ed Eva. Inoltre, a più riprese nell’Antico Testamento e nel Nuovo Testamento si lascia intendere, più o meno esplicitamente, che le colpe dei padri ricadranno sui loro figli nelle generazioni a venire. Dimensione spirituale a parte, la forza di gravità dei peccati del padre schiaccerà quasi ininterrottamente l’esistenza di Pugno di Fuoco, costringendolo a domandarsi, sin da bambino, se abbia o meno il diritto di abitare il mondo.
Ace: «Nonno, sarei dovuto nascere?»
Garp: «Continua a vivere e lo scoprirai».
Itachi Uchiha, seppur schiavo del proprio sangue come Ace, si macchierà di una colpa dai margini molto più netti, definibile in termini moderni. Invero, categorie del diritto penale come “reato” e “responsabilità individuale” sarebbero in grado di raccogliere le azioni del genio Uchiha, che, impigliato in una trama machiavellica, si renderà responsabile dello sterminio del proprio clan.
Solo alla fine Ace e Itachi affronteranno il demone del proprio tormento, e lo sconfiggeranno con un caldo sorriso fra le labbra.
La redenzione di entrambi si risolverà inevitabilmente nella via del sacrificio per il fratello minore, l’ultimo atto di un amore incondizionato. In tal senso, quel sorriso che indosseranno sul punto di morte assume una funziona ancor più catartica del sacrificio stesso: è l’espressione della consapevolezza di aver trovato il proprio posto nel mondo, in quel preciso luogo e in quel preciso istante. In quel sacrificio c’è il senso della loro esistenza.
Cambia l’estetica del sacrificio, perché quello di Itachi è cupo, tetro, oscuro, illuminato solo da una luna piena color rosso sangue. La sconfitta nello scontro mortale con Sasuke altro non è che il punto di arrivo di un sacrificio iniziato anni prima. Quello di Ace è invece un sacrificio trasparente, solare, fulgido, avvenuto tra lo sguardo attonito di tutti coloro che di lì a poco avrebbero trasformato quella sofferenza muta in grida di rabbia.
Ma l’ontologia, al contrario, rimane invariata, perché il senso più intimo dell’atto che più di ogni altro nobilita l’umanità si disvela attraverso la forza di un amore in grado di avere la meglio sull’istinto di autoconservazione. Il concetto di conatus, uno dei fondamenti dell’Etica (1667) di Spinoza, cioè questo istinto a perseverare nel proprio essere, viene in un certo senso ridimensionato dalla razionalità di una scelta che permetta l’esistenza della persona amata, anche al caro prezzo della propria.
Poco importa che la comprensione di Rufy sia immediata mentre quella di Sasuke sia filtrata dalla nuova folgorante verità rivelatagli da Obito. Perché il dolore nel quale naufragheranno li trascinerà negli abissi della propria psiche, dove le tenebre prendono la forma di un senso di impotenza logorante. A permettere loro di tornare a respirare sarà il ricordo di quel cenno di riso e del suo profondo significato. Il dono più luminoso nel momento più buio.
Ace e Itachi sembrano quasi essere consapevoli che la morte sia solo la parentesi fra il proprio esistere e l’esistere-per-qualcuno; e loro, per i rispettivi fratellini, esisteranno sempre.
Itachi esisterà nella scelta di Sasuke di non distruggere il Villaggio della Foglia, anche se poi servirà il miglior Naruto per fargli esaurire completamente ogni riserva di odio. L’oscurità asfissiante nel cammino del vendicatore Uchiha potrà ora gradualmente diradarsi, permettendogli di vivere una verità dolorosa, ma ricolma di amore respirabile.
Itachi: «Quindi, questa volta voglio dirti la verità. Non dovrai mai perdonarmi. E qualunque cosa tu decida di fare, sappi che… ti amerò per sempre, Sasuke».
Ace esisterà nella volontà di Rufy di diventare sempre più forte, non più per prendersi il tesoro di Gol D. Roger – o almeno non solo – ma per non dover più assistere impotente alla morte delle persone a lui care. La fiamma incandescente di quel sacrificio riscalderà il cuore di Rufy per sempre e forgerà una volontà granitica.
Ace: «Padre… e tutti voi ragazzi. Anche se non ho mai combinato nulla di buono nella vita, anche se il sangue che scorre nelle mie vene è quello di un demone… tutti voi mi avete sempre amato. Grazie!».
Una vita a tentare di imbrigliare il senso di appartenere al mondo, a portare il peso di un codice genetico maledetto dalla storia. A proteggere gli affetti rimanendo in disparte, nella penombra dei propri peccati, ma altresì alla luce del proprio amore. Una vita a naufragare fra giusto e sbagliato, cercando l’isola della redenzione, dove poter approdare con la loro anima, al fine di lavare via il sangue del peccato originale.
Un istante per sentire scivolare via, insieme alla propria vitalità, il fardello di un’intera esistenza, per regalare un sorriso che possa alleviare e poi far superare quella sofferenza lancinante. Un istante per liberarsi dalla presa soffocante del dubbio e accettare l’inesorabilità della morte. Per redimersi attraverso il sacrificio più grande.
Ace e Itachi passeggiano ora negli spazi della memoria collettiva, dove l’esistenza non grava sulla propria coscienza, dove il tempo ha la forma di un eterno presente e non affligge la condizione umana. Qui, dove ordine e caos non confondono l’intelletto, dove la continua ricerca del proprio ruolo è sostituita da un’onniscienza dal sapore divino, qui possono ristorare la propria anima.
A volte è sufficiente trasformare la morte in poesia per rendersi immortali.